Composizione - acquaforte-acquatinta
ceramolle zinco - mm. 290x290 - 1982 - 20 + vi
Il foglio e la pagina: strategia e poesia di Elisabetta
Viarengo Miniottii
Verso la fine degli anni Settanta Elisabetta Viarengo
Miniotti, in fase
di primo contatto con le tecniche calcografiche, realizzava un' incisione
ora opportunamente recuperata come prologo a questa mostra. Si tratta di
una figura intagliata a maniera nera e ciò che sin da allora mi aveva
colpito di quel foglio stampato nell' allora galleria Arcipelago di via
Bonafus a Torino, era il valore assegnato al rispetto etimologico della
tecnica, laddove il nero non era di maniera ma assoluto, talchè mi parve
che, in quella lastra, l'autrice attribuisse più valore alla misteriosa
subliminale tessitura del fondo intonso che alla figura ritagliata in quel
nero.
A distanza di anni mi rendo conto che in fondo tutto il successivo iter
della Miniotti era già inglobato in quella trama. Se il visitatore
necessita di una conferma diretta in quanto vado sostenendo, guardi una
sintomatica recrudescenza nell'incisione dedicata, tempo dopo, a un
portone di piazza Vittorio, con quell'artigliata nerissima del berceau
sulla destra che doveva lasciar emergere una protezione architettonica e
che invece, nel suo velluto, ha ipnotizzato l'incisore, che, proprio non
se l'è sentita di violare la purezza di quella tenebra, frutto d'infiniti
orditi e trame intessuti dal ferro dentato.
Ma questo, appunto, non è che un indizio. Noi dobbiamo risalire alle
prove e quelle, spiegare su che cosa si fondino. Il taglio antologico
prescelto per questa occasione consente del resto un'anamnesi totale.
Intanto non è possibile non cogliere un percorso di maturazione che ha
una sua nettissima lesura all'inizio degli anni Novanta, al termine di una
lunga e paziente indagine su quanto insegnava la scuola torinese
notoriamente molto agguerrita in tema di lastre, aghi e bulini. La
Miniotti, comunque, si volge sin dall'inizio, con una certa decisione;
verso il cotè diciamo così calandriano in questa città che per
irrepetibile periodo ha registrato la straordinaria compresenza di quelle
che i manuali definiscono le due anime dell'incisione italiana moderna (bertolini
il "materico" e Morandi il "segnico") nell' attività
dello stesso Calandri e di Francesco Franco. E' già stato scritto e
detto, peraltro, e soprattutto a proposito dei due artisti torinesi,
quanto e perchè i termini di quella presunta bipolarità siano inesatti
prima ancora che angusti, ed è, fra l'altro, proprio l'opera di alcuni
successori, tra i quali la Miniotti, a dimostrarlo indirettamente e
vedremo come.
A me pare, anzitutto, che più dello stilema, nella fattispecie quello
che decorre da Calandri a Soffiantino, alla nostra autrice interessasse la
strategia operativa messa in atto dai due sulla lastra. e soprattutto, ho
il fortissimo sospetto che la Miniotti, in quel modus operandi, innestato
poi sulla razionalità compositiva franchiana, e fatto di continue e
rinnovative sollecitazioni nelle viscere della matrice, e talvolta di
repentini diversivi strategici, di attacchi in profondità e pronte
battute in ritirata, di squarci in complicità con l'irruenza del mordente
e di febbrili suture con raschietto e brunitoio, di segni slabbrati
dall'acquaforte e di carezze all'acquatinta, di brucianti morsure a lastra
aperta e di tamponature con l'unguento della vernice molle, insomma penso
che in questo processuale ribollire d'azioni e di procedimenti la Miniotti
cercasse anzitutto d'impadronirsi d'uno spettro tecnico il più vasto
possibile. Per poter conseguire questo obbiettivo, ha sondato quasi un
decennio le infinite combinazioni ed equazioni intagliabili su quel
millimetro di spessore offerto dalla lastra. E intanto mentre fa suo un
esteso repertorio, la Miniotti "studia composizione", e snoda il
polso (una ginnastica anche mentale, per vincere le ultime inibizioni
circa la virginale freddezza del metallo), in rapidi appunti en plein air.
In questa fase, altro dato importantissimo, inizia a lavorare per cicli e
serie assumendo come pretesto forme umilissime e modulari ma capaci di
impegnarla su probanti ritmi compositivi, dalla forma iterata di un
barattolo alla grafica cangiante tra pieghe di un frammento di tovaglia.
Parallelamente, secondo ricorrenti interludi che l'artista ha voluto
rispettare anche nella topografia di questa mostra, piccole matrici
fungono da "provette" sperimentali per ulteriori alchimie. Che
il bagaglio tecnico-compositivo alfine messo a punto in questa lunghissima
fase di rincorsa non sia tramutato in imbarazzante zavorra ma in
potentissimo propellente per un decollo in verticale, stanno a dimostrare
le serie ultime. La pelle delle betulle, alberi tra i più
teneramente "cutanei", diviene leit-motiv per mirabili grafie,
sorta di pentagrammi solcati da nodi-note. Non "fogli" ma
finalmente "pagine" palpitanti verso un'astrazione tumultuosa
(nella matericità del segno) eppure armonica; ricorrono cortecce come
paesaggi, cicatrici come orizzonti, vene come fulinee vettoriali
inestricabili gabbie compositive. Il ciclo delle acque, sondato anche in
chiave pittorica, apre un fronte ulteriormente mirato alla metamorfosi,
con più marcati accenti visionari: gli stessi che permeavano, si
ricorderà la maniera nera d'esordio. Il segno è alleggerito e più che
alle acquetinte, come pure manuale vorrebbe, le trasparenze vischiose sono
affidate a nuove modalità d'intreccio, aggrovigliato, più frazionato,
più alitante. Acque come nidi di presenze paniche e metamorfiche,
totalmente consustanziate nel gorgolio segnico. In queste due serie
l'artista mette a registro definitivamente quanto emerso agli inizi, cioè
la vocazione alla compenetrazione totale con un linguaggio, quello
incisorio, complicato dal rovello tecnico eppure mai onomatopeicamente
ibridato. Ma davvero non me la sento di concludere scrivendo della
Miniotti come una pura scienziata del gesto, del segno e della materia;
capirà quel che voglio dire chi, tra i visitatori, sarà capace di
leggere la musica inscritta in quelle cortecce-spartiti, di ricostruire
una forma dalle Ofelie e dagli spiriti tritonici tramutatesi in onde e
correnti e di scovare così a dovere, con la stessa profondità
dell'autrice, alla ricerca di nuovi alfabeti, in queste pagine gravide
come un palinsesto. Franco Fanelli |